Notizie Radicali
  il giornale telematico di Radicali Italiani
  giovedì 31 marzo 2005
 Direttore: Gualtiero Vecellio
Ma sì, ancora su laicità e laicismo
(repetita juvant)

• da "Il Foglio"

di Angiolo Bandinelli

Ricevo critiche, in toni a volte accademici a volte giornalistici, perché insisto nel chiedere che venga rispettata (e, prima ancora, capita) la distinzione tra laicità e laicismo. So bene che di questa distinzione si fanno strumento polemico quanti, già intransigenti con l’odiato laicismo, avanzano riserve e sospetti anche nei confronti della laicità, della quale accettano solo una versione detta “sana” perché inquadrata entro paletti e schemi da loro stessi stabiliti. A loro volta alcuni (accademici) sostengono che l’invenzione del bieco laicismo fu bieca trovata di clericali antirisorgimentali: se ben ricordo, addirittura dei gesuiti della “Civiltà Cattolica”. Qualora il fatto rispondesse a verità andrebbe ad onore di quei gesuiti, i quali si dimostrerebbero degni della loro fama di buona cultura storica e di ingegnosa acutezza. A rischio di vedermi incasellato con questi reazionari, insisto e mantengo la distinzione.

 

Essere laico è una capacità, un comportamento: persino difficile a definire, se ci si vuole sottrarre a certi vacui stereotipi, tipo quelli che esaltano la superiorità etica e civica del laico rispetto al clericale - o anche al credente - in quanto non si sottrae al nobile tormento del libero dubbio, mentre il credente (figuriamoci poi il clericale) accetta supinamente una visione del mondo e un’etica eterodirette. Nettamente definita è invece, a mio avviso, la figura del laicista, incardinata soprattutto nella storia culturale dell’ottocento progressista di versione francese (ma non solo). Il laicista è fermamente convinto che la religione, in tutte le sue forme, sia solo un mucchio di pregiudizi da spazzar via e che, in particolare, la chiesa cattolica sia un fenomeno residuale della storia, senza prospettive e destinato fatalmente a scomparire, tenuto in piedi solo da un branco di preti imbroglioni, avidi di “roba”,  sessuofobi e persino pedofili. La nascita del laicismo viene individuata - a partire da quei gesuiti - nella cultura dell’illuminismo; io invece sono convinto che il nocciolo primo del laicismo vada intravisto nella logica della formazione dello stato nazionale francese, a partire da Luigi VIII (1187-1226), promotore della crociata contro gli Albigesi, e da  Filippo il Bello (1268-1314), che si scontrò con la Chiesa su una questione fiscale e avviò il processo di accentramento di un potere burocratico professionale e legalizzato. Su questo giornale ho segnalato alcune tappe della costruzione della statualità francese, con la lotta alle “nazioni” medievali, al protestantesimo ugonotta o alla “fronda” dei principi, con l’”Etat c’est moi” di Luigi XIV, fino agli esiti dell’iperrazionalismo giacobino e dell’impero napoleonico e a quelli, conclusivi e definitivi, delle leggi “eversive” di Ferry e Combes, volte ad estirpare insieme l’insegnamento religioso dalle scuole e - attenzione - i dialetti dall’uso del parlato. Così, in un processo secolare, la Francia è venuta costituendo  le forme dello Stato contemporaneo, “laicista” nelle strutture, tendenzialmente “uno e indivisibile”, caratterizzato da una unica lingua, da un’unica cultura, ma soprattutto da un’unica etica attorno agli indiscussi valori costitutivi di quella “identità nazionale” sulla quale ancora ieri Sarkozy ha esortato i compatrioti alla riflessione e che invece Levy-Strauss condannava come inesistente suggestione.

 

Altra essenziale radice dell’accentramento statualistico è certamente nel Leviatano di Hobbes. Però, si dirà, nell’Inghilterra hobbesiana non si ha il monolitismo laicista della Francia. In Inghilterra, e soprattutto nella sua filiazione americana, Dio è presente nella coscienza civile. La cosa è ovvia: in Inghilterra la religione è, nella forma dell’anglicanesimo, chiesa di stato con a suo capo il re, e dunque Dio è integrato nella visione statuale: “God save the King”; nel mondo cattolico, invece, la chiesa è - da San Tommaso in giù - fonte di un dualismo di poteri che lo stato può tollerare ma che cercherà di espungere.

 

Il laicismo è dunque una componente storica della ideologia dello stato-nazione. Oggi, però, quando si avverte e si denuncia la crisi di questa forma statuale, la cultura del laicismo non ha più né senso né basi. Oggi dobbiamo cominciare a prospettarci strutture statuali di tipo federale (e sovra- o transnazionale), che per definizione rifiutano una cultura statalista portatrice di un’etica “nazionale”, così come di una lingua, di una concezione etnicista unitaria (che opprime e cerca di sopprimere le minoranze etnico-culturali). La mia avversione al laicismo è fondata dunque non sulle pretese dei clericali ma sulle mie convinzioni federaliste, impegnate a individuare le forme della statualità del domani, quella della speranza per i diritti universali dell’uomo. Per capirci: all’americana, e senza Concordato.